“You
know what it's like” è stato per molti, compreso chi scrive, il
disco rivelazione del 2016. Non stupisce dunque che l'hype intorno a
Carla Dal Forno si sia diffuso non poco anche dalle nostre parti,
arrivando a raccogliere consensi pure in quella fascia di ascoltatori
che mai e poi mai si sarebbe spinta a dar una chance a un disco così
sfuggente alle definizioni. Ok, a sponsorizzarlo è l'etichetta dei
Raime, la Blackest Ever Black, ma bisogna tener presente che
l'andazzo dell'appassionato medio qui da noi in Italia è talmente
penoso che a volte solo il passaggio mediatico “giusto” può
certificare e convincere della validità di una proposta che non
viene dai soliti noti. Composto di quattro canzoni e quattro pezzi
strumentali l'album ha il grande pregio di unire il il gusto per
l'intrattenimento a quello della ricerca, sovrapponendo superfici
irregolari e il calmo ondeggiare di linee melodiche e voce.
Australiana di stanza a Berlino, la Dal Forno, altrettanto abilmente
gioca con la propria immagine di ragazza sexissima ma che non fa
niente per bucare lo schermo. A vederla nelle foto e dal vivo ricorda infatti tutta l'innocenza di una pop singer dei sixties appena uscita
dall'adolescenza. La sala dl bar del Visionario è già bella piena
quando arriviamo sul posto. Un po' trafelati a dire il vero perché
oltre l'orario indicato sul calendario dell'evento. Ma il tutto deve
ancora iniziare e quindi c'è modo di prender posto in prima fila e
salutare i volti conosciuti...Ad accompagnarla c'è un tizio che si
occupa di drum machine, theremin ed elettronicherie varie, mentre lei
al basso e voce se ne sta sul ponte di comando a dirigere i giochi.
L'atmosfera è intima e assorta. E i brani scivolano uno dietro
l'altro infilando scampoli di paradiso nel bel mezzo di un tramestio
umorale, trattenuto, che fa dell'enfasi luogo del mistero. A colpire
sono gli spostamenti dei suoni-oggetto generati dalle macchine, dei
fondali oleosi che talvolta si risvegliano in fremiti di ritmo e
talaltra azzardano sfumature taglienti, di luce spoglia nel buio più
nero che esista. La voce, delicata come quella di una Kendra Smith
votata all'ethereal wave, e le linee del basso scolpiscono coi loro
movimenti l'aria intorno e durante alcuni passaggi penso a una cosa
che l'ascolto del disco mi aveva occultato o che forse è solo
associazione strampalata del mio mio cervello: l'ombra dei Young
Marble Giants - quel modo lì
di iniziare e finire senza granché di svolgimento ma con impeto e
fermezza, grattando via quanto non serve. Una breve pausa per
annunciare due pezzi di prossima pubblicazione e il concerto finisce
così come era iniziato. Nessun bis. Il pubblico si disperde tra
bancone del bar e terrazza. Cerco di fermare le impressioni e far gli
opportuni distinguo col disco che molte volte ho ascoltato negli
ultimi mesi. Giungo alla conclusione che riuscire ad essere originali
in quest'epoca di mille e nessuna originalità è difficile se non
impossibile, ma che c'è ancora gente in giro motivata ad esplorare i
confini dei linguaggi col cuore in mano e il massimo dell'onestà.