venerdì 10 luglio 2015
SONNY & LINDA SHARROCK paradise - LP (ATCO, 1975 - REISSUE CD Water, 2002)
L'impatto della chitarra di Sonny Sharrock nel campo del jazz avantgarde è stato devastante. Autodidatta dello strumento, lo zazzeruto afroamericano, ha collaborato nel corso della carriera coi grandi del genere, togliendosi non pochi sfizi. Per far due esempi al volo: lo troviamo nei credits di “Jack Johnson” di Miles Davis, e nei due album di Pharoah Sander, “Izipho Sam” (Strata-East, 1973) e “Tahiud” (Impulse! 1967). Lo status di leggenda planetaria però gli verrà conferito grazie a due album incisi assieme alla moglie Linda, una sorta di Yoko Ono posseduto dal demonio, la cui ugola rimane un proiettile di luce zigzagante tra grandi forme di acciaio temperato. Nel segno di un delirante sabotaggio ai danni dell'ascoltatore “Black Woman” (Vortex, 1969) e “Monkey-Pockie-Boo” (BYG, 1970) non solo misero a ferro e fuoco precedenti schemi musicali, ma contribuirono (o almeno a me così piace pensare) a gettare le basi per quel ground zero che anni dopo farà piazza pulita di tutto: la no wave. Prima della pausa decennale e l'entrata nella task force Last Exit di Brotzmann/Laswell/Jackson, Sonny e coniuge registrarono “Paradise”, affiancati da un gruppo di validi strumentisti. Un album molto ambizioso per intenti, ma che lasciò interdetti molti dei loro estimatori della prima ora. E sono facilmente intuibili i motivi. La violenta meteorologia di un tempo ora mutava in una formula avant funk / fusion che ne elevava radicalmente il coefficiente di artificiosità. Contestualizzato nel suo anno di uscita poi, il 1975, con i fermenti in altre latitudini musicali e tutto il bendiddio che stava per esplodere un lavoro del genere non poteva che venir frettolosamente rubricato. Chi ci ha provato a dargli una seconda chance è stata la Water nel 2002, con la riedizione in cd accompagnata dalle note di Byron Coley. Sebbene i brani non diano l’impressione di esser frutto di casuali attimi d’ispirazione, mostrano una perfetta interazione delle diverse componenti e la volontà di non fissarsi mai su un unico tavolo da gioco. Sentite, ad esempio, come fluisce libero il solo di Fender Rhodes e Moog nella traccia d’apertura, “Apollo”, oppure la voce di Linda e la capacità di controllo su ciò che le si muove attorno in “1953 Blue Boogie Children”. E’ come se il fervore evangelico frammisto all’asprezza arrabbiata della Fire Music si trovasse a fare i conti con uno spazio fluttuante e geometrico. Magari sarò vittima delle mie suggestioni (l’ho ascoltato davvero tanto nelle ultime settimane) ma non credo di poter spendere alcun termine di paragone adeguato. Non perché sia una miscela inedita, mai sentita, ma semplicemente perché qui dentro, il modo in cui si gioca con tutti i propri mezzi e tutti i propri limiti è avanti anni luce. Al confronto con molta della musica che è venuta dopo la sensazione è quella di album in anticipo sui tempi, visionario e genuino. Chissà che qualcuno non si prenda la briga di una nuova ristampa. Riaccenderebbe l’interesse guadagnando nuovi ascoltatori.
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